Marzo 7, 2020

CREATIVI A NAPOLI

l racconto per immagini sembra ravvivare la stagione artisti degli anni Cinquanta. Una riflessione dopo la chiusura del “Comicon” a Villa Pignatelli

CREATIVI A NAPOLI, IL MONDO IN UNA “STRISCIA”

EPSON scanner image

Giovani talenti del fumetto crescono in Campania. E confermano le teorie sociologiche su questo mezzo narrativo

La bella mostra di “fumetti” a Napoli, “Comicon”, ha appena chiuso i battenti e tuttavia le immagini e le idee rappresentate e discusse nelle splendide sale di Villa Pignatelli restano vive e stimolanti, pronte a nuovi dibattiti.

Abbiamo visto l’intensa, articolata opera grafica di Enki Bilal, narratore di personaggi tormentati nell’odierno, comune male di vivere, poeta di icone emblematiche sulla complessità e crudeltà del mondo, messaggero inquietante di espressioni del dubbio e della sofferenza umana. Ebbene, costui non è un pittore ma un disegnatore di fumetti: grandi fumetti come quelli di Moebius, H. Pratt, D. Battaglia, E. Siò, G. Crepax, F. Miller e tanti altri maestri del nuovo segno espressivo. C’erano anche giovani fumettisti napoletani come Roberto Amoroso, dalla linea leggera e svettante giocata su un pesante chiaroscuro; Miriam Iuliucci, che fa vibrare i suoi personaggi in una luce di romantica spiritualità; Orsola Terracciano, dallo stile delicato di maniera giapponese; Toni Scognamiglio, dal tratto fortemente espressionista.

C’erano due bravissimi disegnatori casertani, Antonella Rocchio e Luigi Nappa, che affrontano, in forme grafiche diverse ma ben calibrate, i problemi dell’insolito, dell’ignoto e lavorano, non a caso, nell’interessante, efficiente e ben attrezzata “Accademia del Fantastico” della loro città. Oltre a loro c’erano altri disegnatori come Gian Luigi De Vivo, salernitano, dalle matite nitide e incisive; Andrea Bruno, catanese, dal tratto deformato, grottesco che ricorda l’impietosa crudeltà di Bacon; e poi Marco Marini, Mario Uzzeo, Franco Urru che con la miniserie “Il Velo di Maya”, interpretano magistralmente l’antica leggenda indiana riproposta da Schopenhauer come prova iniziatica per approdare alla vera sapienza.

Oltre le immagini, le idee. A queste ha pensato Goffredo Fofi, scrittore e critico assai noto, che ha condotto a buon esito il convegno dal secco arguto titolo “Fumetto, Fantascienza e Giallo. Noi siamo vivi, voi siete morti”, con gli interventi di Sergio Fanucci e Alessandro Ferri (editori), Gabriella Giardelli e Igort (fumettisti), Massimo Carlotto, Lorenzo Bartoli e Giuseppe Montesano (scrittori), i quali hanno rilevato la valenza creativa del fumetto nei diversi generi letterari in cui si è espresso. Fofi ha sostenuto giustamente il valore non soltanto comunicativo ma estetico di questi generi tanto negletti da una certa èlite culturale, eppure tanto vivi come esponenti di una rinnovata ricerca formale in campo artistico. In effetti mentre il giallo e la fantascienza, insieme al rosa e al noir cominciano a far parte della Storia della letteratura, il fumetto viene oggi riconosciuto nella sua autonomia di scrittura letteraria-figurativa come Arte a sé stante, che si esprime attraverso i canoni dei vari generi. Vivi sono dunque quanti hanno compreso e accettato questo riassestamento della prospettiva estetica – che non è certo ferma nel tempo sull’emblema unico e armonioso del bello, come vorrebbe Stefano Zecchi con L’artista armato – morti, secondo Fofi sono gli Accademici.

Nondimeno la condanna di Fofi sembra mettere in sordina il lungo, acceso dibattito sul processo di trasformazione della forma estetica che ha contrassegnato tutto il Novecento (da lui stesso, del resto, ben inquadrato nei suoi vari saggi) a partire dall’irruenza teorica delle Avanguardie fino alla pratica compromissoria del minimalismo. Le analisi di T. W. Adorno, W. Benjamin, A. Gramsci, H. Marcuse, L. Goldmann, E. Morin, U. Eco, S. Solmi, G. Petronio, R. Cesarini sulla cultura popolare e l’industria culturale, nella accusa e difesa della cultura di massa, costituiscono, approcci ermeneutici alla profonda trasformazione della civiltà occidentale nel passaggio dalla società rurale-artigianale alla società, urbana-meccanizzata.

Oppure, di fronte al più semplice cambio di locuzione della voce servo (usata di diritto all’epoca dei galantuomini) in collaboratore domestico (oggi rubricata nei dizionari e negli atti burocratici), dobbiamo pensare, attingendo a una vocazione spiritualista, che si tratti degli effetti linguistici di un’evoluzione generazionale della società? La Storia in tutto questo non perdona, fornisce date, fatti.

La società di massa, come è noto, nasce con l’urbanesimo all’indomani della Rivoluzione industriale sorta in Inghilterra nella seconda metà del settecento. Ma tale società non nasce già adulta bensì infante, straniata: è il mondo dei contadini ridotti in miseria dai Signori e dalla gentry di Contea costretti a lasciare i campi, a diventare cittadini e operai. La loro cultura da popolare, legata al folklore rurale, poco a poco dall’Ottocento al Novecento, assume attraverso le prediche in chiesa, la stampa e infine i mass media, capacità ricettive più ampie e profonde fino a giungere alla domanda di beni culturali sempre più nuovi e complessi. D’altronde, come Fofi sa bene, la società di massa non è un agglomerato urbano compatto e uniforme, ma consiste in un coacervo di individui appartenenti alle classi subalterne che solo la statistica e la scarsa sensibilità intellettuale possono classificare numericamente quali elementi passivi.

Ora parlando di cultura di massa in contrasto con la cultura di élite e notando il montare di un’arte e una letteratura sempre meno funzionali alla persona, non costruite sulla progettualità umana ma affidate a lacerti umorali e emotivi, non dobbiamo dimenticare che proprio nella cultura elitaria è emersa la tragica morte dell’io romantico, aggredito dal sarcasmo bellicoso delle Avanguardie e quindi la frammentazione e la fine del soggetto narrativo che fa e dice, come leggiamo nei romanzi di Pirandello, Musil, Kafka e Joyce. Queste storie senza eroe anticipavano o testimoniavano gli effetti collaterali provocati sulla letteratura europea dall’esproprio socio-economico e quindi culturale dell’individuo quale libero uomo d’azione (l’imprenditore privato) e di pensiero (l’artista, lo scienziato) sopraffatti dall’organizzazione finanziaria del capitalismo monopolistico.

Dunque quanto più si spezzava la vecchia unità estetica della forma assoluta del bello, cara all’umanesimo borghese, tanto più si allargava, con le nuove avventure artistiche e letterarie e con il potente ausilio dei mass media, lo spettro di fruizione del lettore-spettatore medio che registrava la legittimazione del proprio spazio immaginativo. In altri termini la “distanza culturale” (titolo efficace di un bel libro di Enzo Golino) fra alta-media-bassa cultura si è ridotta considerevolmente con il complesso e articolato evolversi della società di massa, oggi largamente alfabetizzata su temi e problemi di varia natura. Fofi ha certamente ragione di rigettare come spurie per un verso le teorie trionfalistiche sull’Arte-spazzatura-splatter (espresse da A. Abruzzese in forma di paradosso) e per altro verso le condanne apocalittiche della cultura di massa proclamate negli Anni tra le due guerre dai “cavalieri della paura” – O. Spengler, A. Schwitzer, H. Keyserling, I. Huizinga, J. Ortega y Gasset che addebitavano all’uomo-massa la crisi e la fine della Civiltà – ma occorre motivare storicamente non avventuristicamente, in via generazionale, giovanilistica, queste prese di posizione.

Il contrasto, o piuttosto il divario fra cultura di èlite e cultura di massa – un tema ampiamente dibattuto da accademici italiani nel “Primo Convegno nazionale di Sociologia della letteratura” sponsorizzato da due Università napoletane e tenuto a Gaeta nel 1974 – oggi si presenta in una forma assai meno nitida che in passato. La cultura nelle sue varie branche artistiche e letterarie ha sempre avuto tempi lunghi, epocali, diversi per ogni disciplina. Ogni epoca ha tradotto, allo scadere del proprio gusto innovativo la cultura egemone di èlite, in cultura per le classi subalterne per affermare i nuovi canoni di una rinnovata cultura di èlite, fin quando non è sopraggiunto il sistema unitario della tecnica, attraverso la capillarità dei mass media, che ha bloccato e sconvolto l’intero processo di produzione estetica. Le regole disgiuntive e assemblanti del montaggio cinematografico sono entrate nell’arte compositiva del racconto e della poesia. L’artificio meccanico ha soppiantato l’apparente spontaneità dell’atto creativo, coinvolgendolo nell’apparato capitalistico predisposto alla produzione per il mercato. L’immagine, come spazio sinergico e cumulativo, ha vinto sulla parola puntando sul potere icastico dei simulacri. Lo sviluppo intensivo di una produzione informativa ed estetica largamente omologata sul piano multimediale, alla domanda di mercato ha finito per intaccare le strutture stesse dei modelli culturali alti e bassi unificando le prospettive di accesso ai due livelli in un semplice scambio di merci.

A questo punto ci accorgiamo, ripensando alla bella mostra del “Comicon”, che il fumetto, come si diceva non è più da considerarsi un sottogenere – come il cinema delle origini apparve ai parigini quale divertissement boulevardier – ma va registrato come l’ultima forma d’arte del nostro tempo, un’arte viva, certo, con i suoi maestri, e i suoi artisti affermati e mancanti nei generi più consolidati del giallo, del nero, del rosa, dalla fantascienza al dramma psicologico, dalla tragedia alla commedia questo nuovo racconto per immagini sembra ravvivare la bella stagione artistica degli anni ’50 che aiutò gli italiani a uscir fuori dall’incubo della guerra